La spiritualità antropologica rimette in gioco il soggetto nella società che è attore e spettatore nello stesso tempo di ciò che si crea in un determinato contesto spazio temporale. Vivere vuol dire implicitamente far parte di un gruppo anche quando ci si dice a sé stessi di non voler e di non appartenere a nessuno. La matrice è un concetto che nella società attuale fa paura. Appartenere vuol dire sapersi definire e ridefinire secondo le proprie aspirazioni e le esigenze che l’ambiente ci pone. Appartenere ad un determinato contesto non vuol dire come lo era in passato “essere radicato in determinato territorio”. La persona oggi ha bisogno di avere non solo delle radici ma qualcosa su cui posarsi per il maggior tempo possibile. Essendo un’epoca non dove come erroneamente si pensa senza valori, ma bensì con valori che si modificano a velocità poco “umane”. Essere inclusi ed essere esclusi dalla vita sociale non è più qualcosa come appartenere al gruppo dei vincenti o in quello dei perdenti, ma essere capaci/incapaci di essere sempre al top, essere sempre efficaci, vivaci loquaci, pieni di vita, convinti e sicuri del sistema sociale. Il proprio modo di essere è la spiritualità cioè quello spazio che fa da ponte fra un determinato soggetto presente a sé stesso che vive che respira che vede che beve che mangia che ragiona secondo delle proprie specificità. Conoscere le proprie peculiarità senza fare la disamina delle qualità positive e negative (che sono costruite socialmente nella maggior parte dei casi) ma di saper assaporare questa propria “personalità”. A volte per star bene con sé stessi basta gia saper regolare il proprio respiro forse il proprio “alito” o “spirito”è più che fisiologico ed evidente: senza l’aria non potremmo proprio vivere e se il respiro si modifica per ogni attività che dobbiamo intraprendere . Saper accettare il proprio respiro, sentire i propri battiti, sentirsi non solo in senso vestibolare ma vedere i propri confini facilita l’inclusione: sono fatto in un determinato modo, sono presente a me stesso, provo piacere nel sentirmi la vita che scorre e non metto in primo piano le qualità positive o negative che ho. Attuando questo lavoro, all’inizio, ma ripetendolo diverse volte diventa un piccolo spazio o regalo che posso dare a me stesso e mi fa ricordare che al di là di come ci si deve comportare ci si rende conto quanto poco rispetto è radicato nella società. Il rispetto per la propria spiritualità (che non vuol dire amiamoci tutti perché siamo figli di Dio) vuol dire accettare pienamente e consapevolmente che il proprio respiro, la propria musicalità, il “rumore” di tutte le nostre cellule che sono sempre a lavoro per noi hanno significato quando queste si sincronizzano con gli altri “rumori”, con le altre musicalità. Questo scambio di sicuro alimenta la salute propria ed altrui in quanto usando un esempio anche se può sembrare un po’ banale il singolo computer di casa o di ufficio ogni mese si sincronizza con il server di windows per rilevare l’orario di tutti gli altri server. Partecipare alla propria spiritualità vuol dire cercare anche lo spazio e il tempo delle relazioni e di non favorire il vuoto che ci si sente addosso essendo capaci di collegarsi al mondo intero da casa ma in realtà questo gioco di respiri e di rimbalzi viene nella realtà sempre più eliminato e sostituito con la critica (per es. la commessa che un po’ infastidita dice: “lei che taglia porta…” rientra/non rientra in uno standard o canone). Se ci si ricorderebbe un po’ al di là se ho davanti una persona simpatica o antipatica che rispecchia determinati canoni o meno bisognerebbe sentire il proprio “alito” che di sicuro è portatore di vitalità. Il valore di fondo della vita che è riportabile in ogni contesto spazio temporale è proprio nell’essere capaci di godere della vitalità che un'altra persona può dare sia se sono euforico, annoiato, arrabbiato, felice, pauroso etc. A volte uno sguardo e un sorriso vale molto dura qualche secondo o meno ma ti rende presente a te stesso e agli altri. Vivere vuol dire avere imparato a piacersi!!
Quando si entra nell’opera di Giulio De Mitri tra installazione ambientale, tecno-light-box e video si è coinvolti – come scrive Rosalba Branà – in un percorso sensoriale e percettivo elaborato
secondo una personale ridefinizione semantica delle pratiche linguistico-espressive legate alla mediterraneità. Sono opere che conservano un sapore “classico” e al contempo si inseriscono nel più
avanzato dibattito sull’arte e sull’uso della tecnologia, in forma poietica.
Pur essendo indubbiamente legato al simbolo, al mito e alla valenza geo-politica della e nella mediterraneità, centrale nella ricerca dell’artista è l’esemplificazione di un’energia spirituale,
che può scaturire dalla combinazione di elementi materiali ed immateriali. Gli ambienti di De Mitri sono circondati da un’aura di spiritualità ipnotica quanto disorientante.
Volto alla ricerca di un dialogo con l’Assoluto, l’artista perviene ad una nuova percezione dello spazio, di complessa definizione: non più l’arte come somiglianza, ma come volontà – o come
tentativo – di cogliere e fissare l’immagine dell’irrapresentabile. Lontano dalle categorie mimetiche del reale – di rappresentazione platonica o interpretazione aristotelica – De Mitri introduce
la simulazione del non-definito, una visionarietà che esprime in ogni ambito esistenziale e artistico.
La sua progettualità, nell’ambito della recente produzione, ben esemplifica la portata artistico-culturale della personale ricerca dell’artista.
L’opera istallativa Percorso di Origène (2011), presentata alla 54° Biennale di Venezia, Padiglione Italia-Calabria, è un lavoro plastico rigoroso e poetico che raccoglie istanze esistenziali.
Origène, teologo e filosofo del III secolo a. C., si interrogò sul percorso della stella, sulla sua destinazione e sulle sue valenze spirtuali; ugualmente Giulio De Mitri dà curvatore
introspettiva al fenomeno della stella, inducendo ad una riflessione profonda sull’essere umano, su ciò che è nella sua individualità imperscrutabile, ovvero su quel subconscio che è in lui. La
stella è così fenomeno di energia cosmica, veicolata dalla luce blu che si riflette in una superficie specchiata triangolare (simbolo della perfetta Trinità). Le rifrangenze della luce – dei
duecentoquaranta corpi illuminanti e della proiezione “meccanica” del mare, che sovrasta l’istallazione stessa – sullo specchio e sulla stessa stella blu evocano presenze evanescenti, che
conducono alla soglia del Percorso di Origène. Tale rispecchiamento ha una duplice valenza sensibile ed esistenziale anche ne La Porta del cielo (2010), istallazione ambientale, che stigmatizza,
attraverso un lungo percorso, un processo interiore sul proprio essere al mondo, un guardarsi dentro che si compie in quella dimensione ove la coscienza scopre se stessa e si approccia alla
conoscenza originaria dell’Essere. In questa dimensione metafisica, si scorgono segni archetipali che narrano la Storia dell’Uomo: la Ciotola, il Libro e la Conchiglia sono indelebili tracce del
passato. Oltre questi segni umani si dà la porta del cielo infinita, esemplificata da una pala d’altare tripartita che vive dell’energia del cosmo: della luce blu delle costellazioni.